Ricordando Vulcania e Tancredi
Un tempo, lontano più di mille anni dal nostro frenetico presente, viveva in Venezia il doge Partecipazio; il suo palazzo si affacciava in un suggestivo e caratteristico campiello che era raggiungibile percorrendo una serie di callette, partendo dalla Chiesa dei Santi Apostoli.
Tra le tante ricchezze del Doge, una in particolare gli era più cara: Vulcania, sua figlia, che aveva due occhi così brillanti da far innamorare la luce stessa.
Ella conduceva una vita molto riservata, conservandosi pura. La mattina, appena sveglia, amava aprire gli scuri della sua finestra, che dava sul rio sottostante, per fare uscire i sogni della notte ancora imprigionati nella stanza.
Una mattina passò uno strano tipo che per come era vestito e per le piccole dimensioni della sua barca certo non era un mercante, anche perchè il compagno di barca di questo giovane era uno strumento musicale a corde. Non appena Tancredi, codesto il nome del giovane, volgendo gli occhi verso l’alto, vide Vulcania, ne rimase ammaliato. Inconsciamente lasciò il remo ed imbracciò il suo strumento, dando suono e voce ad una dolce melodia, ispirata dal felice incontro.
Vulcania, al termine della musica superò la timidezza e prese ad interrogare Tancredi, il quale si disse essere un trovatore e soltanto di quell’arte nobile e confessò di non essere sicuro di aver suonato e cantato bene, tale era l’emozione che lo aveva preso nel vederla.
Lei stava per rispondere quando un richiamo ne richiedeva la presenza all’interno della casa. Costretta a malincuore ad abbandonare il balcone si eclissò dopo un breve saluto che mal celava l’invito a rivedersi presto.
Così il freddo mattino seguente la cosa si ripetè e l’inclemenza del tempo, anziché spegnere le fiamme non faceva che alimentare il fuoco della passione, finchè la pioggia non arrivò e Tancredi dovette andarsene via veloce. Vulcania richiuse i battenti e nella sua mente si affacciarono tutti i dubbi che serbava nel cuore e cioè se un povero trovatore avrebbe potuto sposare la figlia del doge…
Ma il destino, sempre pronto a burlarsi delle persone, se con facilità le fa incontrare, con la stessa le divide: così ben presto la strada di uno dei due prese una direzione diversa, anche se nei loro cuori nulla era cambiato.
Vulcania ogni mattina apriva i balconi sospirando ma di chiunque fosse lo sguardo che incontrava non rivedeva più quello di Tancredi.
Egli infatti era partito insieme a molti altri cavalieri armati per andare a conquistare i tesori degli irriducibili nemici mori; nel cuore non aveva odio verso il nemico, ma il desiderio di poter abbracciare il prima possibile la sua amata Vulcania e il pensiero di poter tornare ricco così da poter chiedere al doge la mano della figlia.
Attorno a lui era un’aspra realtà che stringeva d’assedio i valorosi cavalieri. Chi è armato di sola poesia non può sperar nella vittoria! Ma lui invece pensava che chi porta l’amore nel cuore assai più forte diventa da non temere nessuna battaglia.
Vane speranze…lo lasciarono a terra da lama nemica mortalmente ferito. Attorno a lui solo morte, tra i corpi caduti e gli ammassi informi vide però un rosaio che ostentava le sue candide rose.
Sanguinante avanzò verso la pianta e ne raccolse il bocciolo più bello, quale estremo messaggio ed ultimo salute da inviare per mano amica alla sua amata. Soccorso dai compagni d’arme non ebbe nemmeno il tempo d’ accorgersi che il candido bocciolo s’era impregnato del suo sangue e diventato vermiglio, sussurrò il nome dell’amata e spirò.
Un nobile compagno raccolse l’ultima poesia di Tancredi e la volle portare a Vulcania.
Con la rosa colorata dalla passione arrivò a Venezia e la consegnò alla figlia del doge.
Tutto in lei cambiò e la bellezza che l’aveva sempre accompagnata si tramutò in un pallore mortale.